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Tecnologie per assicurazioni e banche

Le banche e l’era “post-digitale”

10 Ottobre 2019

La rivoluzione tecnologica sta spiccando un nuovo salto, caratterizzato dall’affermazione di intelligenza artificiale, blockchain, edge e realtà aumentata. Come reagirà un settore creditizio già in ritardo? Se ne è parlato in apertura del Banking Summit, in corso a Bardolino

 

Da sinistra a destra, Ezio Viola, amministratore delegato di The Innovation Group; Nazzareno Gregori, direttore generale di Credem; Alessandro Graziani, vice caporedattore de Il Sole 24 Ore; Roberto Nicastro, vicepresidente di Ubi e presidente di Cassa del Trentino; Paolo Fiorentino, ceo di Banca Progetto

 

 

Le banche stanno cercando di adeguarsi alla rivoluzione digitale, ma non tutte ottengono successi. E, mentre ciò accade, la rivoluzione tecnologica va avanti, rendendo obsoleti i modelli che si sono affermati negli ultimissimi anni, e che alcune aziende di credito non sono ancora riuscite ad adottare.

Per Ezio Viola, amministratore delegato di The Innovation Group, siamo già entrati in un contesto post-digitale, caratterizzato dall’affermarsi delle più note tecnologie emergenti: intelligenza artificiale, blockchain, edge computing, realtà aumentata. “Dire che siamo nell’era post-digitale, non vuol dire che il digitale non servirà più”, ha puntualizzato oggi Viola in apertura del Banking Summit, due giorni organizzata da The Innovation Group in corso di svolgimento a Bardolino (Vr). “Ma che è il punto di partenza”.

Punto di partenza verso l’utilizzo quotidiano e generalizzato di tecnologie che di qui a poco potrebbero divenire la normalità – proprio mentre c’è chi ancora non ha spiccato veramente il salto verso la digitalizzazione basic. Anche tra i consumatori.

Ma i tempi corrono. Volano. Quelli che oggi sono considerati i giovani, i ragazzi, hanno già iniziato a diventare grandi, e nei prossimi dieci anni saranno una delle più importanti categorie di investitori. Che le banche dovranno provare a coinvolgere.

Aspettando l’omnicanalità, che spesso sembra un miraggio (non solo nel mondo bancario) ci si accontenta del multicanale – e un multicanale fatto bene sarebbe già una bella cosa.

 

Le sfide del “tecnocene”

Una serie di sfide impegnative, dunque, attendono le banche e i mercati finanziari. Ne ha parlato Cosimo Pacciani, ex chief risk officer del Fondo salva-stati, in collegamento streaming da Londra. Che ha definito questa epoca “era del tecnocene”. Ora, ha affermato, siamo vivendo un periodo “di transizione”, che – ha proseguito – culminerà in uno scenario dove “l’uomo avrà un ruolo limitato nei processi decisionali: di qui a 50 anni gran parte del lavoro sarà eseguito da macchine, robot, intelligenza artificiale. Che saranno agenti sul mercato, come non era mai stato prima: prenderanno decisioni”.

Cambierà il rapporto fra i player del settore, inclusi i clienti, “e si presenteranno anche problemi etici. Mentre, rispetto a questa rivoluzione, emergeranno difficoltà da parte dei regulator e delle forze sociali e politiche, per cui non sarà semplice capire questo cambiamento”.

E il domani è già ora: “per 10-15 anni abbiamo parlato di tecnologia e oggi, tutto a un tratto, iniziamo a ricevere telefonate da robot che ci consigliano investimenti”. Tutto questo mentre “l’iniziale integrazione di questa tecnologia è avvenuta in maniera non coordinata né regolata. E ora non sappiamo ancora con cosa avremo a che fare”. Questa, secondo Cosimo Pacciani, è la prima sfida, che non va sottovalutata.

La seconda è, ça va sans dire, l’irruzione delle start up: “a Londra, la City è divisa a metà fra le grandi banche istituzionali e le fintech“. E non è tutto: “queste società nascono spesso in una nicchia, ma poi arrivano a espandere i loro ambiti di intervento. E questo è un segnale d’allarme per il settore bancario”. Settore che deve difendersi su tanti fronti: quello fintech, appunto, quello bigtech (“che controllano gran parte dei nostri dati e sono persino in grado di spostare voti alle elezioni”) e quelle che Cosimo Pacciani chiama “whatevertech“, le tech-qualsiasi-cosa (“sotto l’ombrello del fintech nascono varie denominazioni”, spiega).

Le altre sfide sottolineate sono il lavoro (come riallocare e ricollocare le risorse umane dopo che il machine learning avrà definitivamente preso piede?), la fiducia nel mondo bancario (come recuperarla?) e la sicurezza dei dati (come assicurarla?). Tre temi non da poco.

 

Una banca, un modello

Il problema del lavoro, in particolare, è generalmente visto come un grande tema etico e di diritti del cittadino. Ma non è solo quello: rinunciare a risorse importanti ed esperte può anche avere conseguenze negative sulla banca stessa. Di questo argomento ha parlato Paolo Fiorentino, ceo di Banca Progetto (e ex Unicredit) nella tavola rotonda successiva, moderata da Viola e da Alessandro Graziani, vice caporedattore de Il Sole 24 Ore, e a cui hanno partecipato anche Nazzareno Gregori, direttore generale di Credem, e Roberto Nicastro, vicepresidente di Ubi e presidente di Cassa del Trentino (anche lui ex dirigente in Piazza Cordusio).

“I 50enni che sono usciti dalle banche? Una grande dispersione di personalità”, ha detto, senza mezzi termini, Fiorentino. “Si tratta di persone nate con una cultura bancaria tradizionale ma molto solida. Questa dispersione oggi crea un diffuso senso di disservizio in tutto ciò che non è digitale”. Un bel problema. Che, secondo il timoniere di Banca Progetto, non è l’unico. A questo infatti, ha aggiunto Fiorentino “si somma una forte aspettativa della clientela sul digitale, che anche gli istituti di credito migliori non riescono a soddisfare. Chi ha come parametro Google e Amazon vuole lo stesso tipo di servizio fornito da queste società”.

Una situazione abbastanza problematica. Ma, se ormai molti, troppi cinquantenni con esperienza sono usciti dai radar, portando con sé competenze che sarebbero state utili alle aziende di credito, si può almeno sperare di recuperare sul lato digitale. Qual è il modo migliore? “Ogni banca ha il suo percorso, che è diverso da quello di tutte le altre” ha risposto Gregori. “Quindi, per prima cosa occorre tracciare la propria roadmap. Evitando di pensare solo alla tecnologia. Perché”, spiega il direttore generale di Credem, “l’innovazione digitale non è solo un aspetto tecnologico: la prima sfida è di cultura, relazione, organizzazione (un assetto di tipo gerarchico non si addice al modello digitale). Per questo motivo, abbiamo scelto di non formare un centro di innovazione in banca, ma di promuovere, attraverso la guida di una persona esperta, la cultura digitale della persona. I nostri operatori, da parte loro, dovranno trasmettere queste conoscenze ai clienti, accompagnarli e far loro scegliere”.

 

Come collaborare con le fintech?

E le start up? “Per noi, il digitale è un servizio a 360 gradi, non verticale”, ha affermato il direttore generale di Credem. “E le fintech sono verticali per definizione. Intendiamoci, io sono favorevole agli accordi con loro: ci permettono di occuparci del nostro core business, utilizzando i loro servizi per il resto”. In quali aree è possibile collaborare e non competere? “In teoria non c’è un settore in cui non si possa cooperare. Le scelte, ancora una volta, riguardano il singolo istituto. Dipende dal modello di business della banca. Non vediamo limiti dal punto di vista logico: bisogna scegliere caso per caso”.

Collaborare, va bene. Ma come? Ne ha parlato Nicastro ricordando un dibattito, svoltosi un po’ di tempo fa a Londra, che cercava di chiarire i motivi per cui molte fra queste partnership alla fine non sono produttive. Il problema, ha ricordato, è che si fanno tanti annunci, ma molti accordi sono superficiali, stretti più per l’immagine che altro. “Occorre che la banche abbiano chiarezza strategica”, ha affermato. “Non è sufficiente presentarsi al ceo e dire “guarda come è bella questa fintech”. Poi, l’open banking: è una finestra spalancata all’esterno, ma dietro ha muraglie: adattarla ai sistemi interni è costosissimo”.

L’imperativo è, dunque, “fare cose concrete”. Nicastro cita il caso di Santander, che ha voluto creare ex novo una start up. In Gran Bretagna, ha ricordato, il gruppo “sta costruendo una banca parallela, rinunciando a fare tutto al proprio interno”. Ovviamente è un caso, che può andare bene per alcune aziende di credito (e infatti non è un caso isolato), ma non per altre. Un caso che, però, impartisce una lezione: “dobbiamo investire in semplicità”.

Il che – con un gioco di parole – è impresa tutt’altro che semplice.

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